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Quando gli scrittori diventano architetti. Un esperimento nello spazio e nella parola scritta

di AJ Artemel

La scrittura è stata a lungo intrinseca alla pratica dell’architettura, dai Dieci libri sull’architettura di Vitruvio ai saggi teorici di Peter Eisenman. La scrittura aiuta gli architetti a spiegare le idee che sono difficili da cogliere dai soli disegni e permette di definire programmi non specifici per il progetto in manifesti o riviste, come L’Esprit Nouveau di Le Corbusier. Anche gli scrittori teorici si sono confrontati con l’architettura; Jacques Derrida, ad esempio, ha utilizzato metafore architettoniche per descrivere le strutture dei testi e ha fornito consulenza agli architetti per il concorso del Parc de la Villette. Gli architetti sono stati anche protagonisti di opere di narrativa, come nel caso di The Fountainhead di Ayn Rand. Ma raramente l’architettura ha svolto per la scrittura la stessa funzione che la scrittura ha svolto per l’architettura: analizzare e chiarire.

La scorsa primavera, gli studenti di scrittura della Columbia University School of the Arts si sono cimentati proprio in questo, nel Laboratorio di architettura letteraria del professor Matteo Pericoli (Pericoli ha tenuto il corso anche alla Scuola Holden di Torino negli ultimi quattro anni). I tredici studenti sono partiti da un’opera letteraria che conoscevano bene, e ne hanno accuratamente sfrondato il linguaggio per rivelare le strutture e gli spazi che la organizzano. Queste gerarchie, sequenze e volumi letterari sono stati poi tradotti in modelli architettonici con l’assistenza degli studenti di architettura della Columbia (vedi i progetti qui sotto). Sotto la guida di Pericoli, gli studenti si sono sforzati di rappresentare l’aspetto letterario, non quello letterale.

“On The Road” di Jack Kerouac

L’ispirazione per i modelli parte dalla lettura. Come scrive il professor Pericoli, “quando leggo un romanzo, un saggio, o qualche scritto ben strutturato (oltre che ben scritto, naturalmente), c’è un momento in cui ho la sensazione di abitare una struttura che va al di là delle parole, che è stata in qualche modo costruita (non so quanto consapevolmente) dallo scrittore. E non sto parlando delle ambientazioni descritte nel libro”. Ma la speranza è che analizzare la letteratura con l’architettura possa aiutare gli studenti a diventare scrittori migliori. Pericoli aggiunge: “L’importante, credo, è che [gli studenti] si rendano conto che la creazione di un pezzo di scrittura nella propria mente può essere un esercizio spaziale e strutturale, prima, durante o dopo aver iniziato a mettere le parole sulla carta. Per uno scrittore, pensare senza parole può rivelarsi un’esperienza positiva.”

Sebbene il corso sia specificamente inteso a sviluppare la capacità degli scrittori di pensare in modo spaziale, i risultati architettonici del corso mostrano la forte comprensione degli studenti dello spazio e di come manipolarlo con superfici e volumi. I progetti spaziano da padiglioni spartani ed eterei a modelli che sembrano essere sulla buona strada per diventare edifici. Molti dei progetti di padiglioni adottano una semplicità simile a quella di un memoriale, attenendosi a pochi tagli nel terreno o a un gruppo di muri. Questa somiglianza può derivare dalla necessità di creare spazi per le narrazioni del lettore o del visitatore (che nei saggi esplicativi degli studenti sono spesso la stessa cosa), o da quel senso inafferrabile di poetica architettonica che è il senso del progetto.

“A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again” di David Foster Wallace

I progetti più simili a edifici sembrano derivare da opere in cui l’autore stabilisce una struttura forte, ripetitiva o chiara, come in “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again” di David Foster Wallace. La forza di questa struttura si traduce più facilmente in planimetrie, scale e vani ascensore e fa luce su come gli architetti stessi potrebbero procedere alla schematizzazione di un’idea iniziale.

Il Laboratorio di Architettura Letteraria riesce ad avvicinare più che mai la scrittura e l’architettura, dotando gli scrittori della visione e della modalità di analisi di un architetto. Anche gli architetti possono imparare da questo esperimento; forse le scuole di architettura dovrebbero reintrodurre, ove possibile, corsi di scrittura per insegnare agli architetti a pensare in termini di narrazione e metafora e, infine, a tradurre questi concetti in strutture spaziali immaginative.


Da Architizer, Agosto 2013